sabato, novembre 10, 2007

L'Uomo Fantasma su Repubblica

Post originale tratto dal blog Kelebek di martedì, 13 settembre 2005
Abbiamo già parlato di Ali il Pellegrino, l'uomo-fantasma di Abu Ghraib. Come sempre , i nomi arabi creano problemi: qui Hajj Ali viene chiamato Ali Shalal el Kaissi, altrove, e più correttamente, al-Qaysi.

Lo sciopero della fame per ottenere un visto anche per lui è entrato nel dodicesimo giorno. Tacciono sia Fini che Prodi.

Non tace invece Repubblica, che grazie ai nostri amici ha potuto fare questa intervista.


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Intervista a Shalal el Kaissi divenuto il simbolo dei maltrattamenti ai detenuti iracheni


"Io, il prigioniero con il cappuccio mai più orrori come a Abu Ghraib"


di PAOLA COPPOLA


"MI hanno torturato, mi hanno umiliato, mi hanno distrutto dentro. Voglio che quello che è successo a me non accada mai più, che tutti sappiano cosa sono stati quei mesi ad Abu Ghraib. Questa è la mia nuova vita: denunciare quello che accade nelle prigioni irachene, difendere i diritti di chi si trova lì dentro". Parla l'ex detenuto n° 151716 del carcere della vergogna, l'uomo che si è riconosciuto in una delle foto-simbolo delle violenze di Abu Ghraib: il prigioniero incappucciato, in piedi su una scatola di cartone, spalle al muro, con le braccia aperte e le dita delle mani collegate a dei fili della corrente.

Ali Shalal el Kaissi, 42 anni, è stato arrestato a ottobre 2003 in un parcheggio vicino alla moschea di El Amariyah e imprigionato con l'accusa di far parte della guerriglia. Nel gergo sprezzante dei suoi aguzzini era Clawman, l'uomo uncino, per una vistosa bruciatura sulla mano. E' stato rilasciato a gennaio 2004 e, qualche mese dopo, ha fondato insieme ad altre 12 persone "The association of the victims of american occupation prisons".

Invitato alla conferenza sull'Iraq organizzata da Campo Antimperialista il prossimo ottobre, Haj Ali ("Haj" è un titolo che spetta a chi ha fatto il pellegrinaggio alla Mecca) sa delle pressioni americane e dei visti negati agli altri iracheni. Lui attende una risposta: "Non so se riuscirò a venire", dice. In questi giorni è ad Amman, in Giordania, dove ha frequentato un corso di formazione per operatore umanitario.

Quando ha visto per la prima volta la foto con l'uomo incappucciato e si è riconosciuto?

"I volontari di un'associazione irachena che si occupa di diritti umani mi hanno mostrato le foto scattate ad Abu Ghraib. E' stato uno choc, una distruzione personale. Io ho subito quello che si vede nelle immagini: mi hanno coperto il capo, torturato e sottoposto a pressioni fortissime. Mi hanno fotografato molte volte. Ma altri hanno stabilito che quel prigioniero ero io: organizzazioni per i diritti umani e anche delle inchieste giornalistiche, una della tv americana, Pbs, e un'altra della rivista Vanity Fair".


Quando le hanno scattato le foto?

"Appena arrivato ad Abu Ghraib, mi hanno portato nell'edificio dove c'erano le celle. Il secondo mese di prigione sono iniziate le torture e nello stesso periodo hanno anche cominciato a scattare le foto. Non saprei dire esattamente il giorno perché avevo perso la cognizione del tempo".


Qual è stato il momento più difficile durante i mesi di prigionia?

"Quando mi hanno messo su una scatola di cartone, con i cavi elettrici collegati alle mani. E quando mi hanno lasciato nudo per quindici giorni. E in sottofondo, con un altoparlante, mi facevano sentire in continuazione una canzone, By the rivers of Babylon (di Boney M., ndr). Mi sembrava di impazzire".


Cosa le chiedevano durante gli interrogatori?

"Volevano sapere se lottavo contro l'occupazione. Ma anche se conoscevo delle persone nella zona in cui vivevo: ho avuto l'impressione che cercassero qualcuno che poteva collaborare, volevano informazioni. Volevano che diventassi il "loro occhio" sulla regione. Ma non sapevo nulla, e non rispondevo alle domande. Così sono iniziate le torture. Mi chiedevano sempre le stesse cose, le ripetevano decine di volte, credo che fosse una strategia per farmi parlare. Gli interrogatori erano condotti da persone che dicevano di aver lavorato a Gaza e in Cisgiordania".


Dopo il suo rilascio ha denunciato quello che era successo?

"Mi hanno rilasciato prima che scoppiasse lo scandalo delle foto, dicendomi che il mio arresto era stato un errore. Ho denunciato quello che mi avevano fatto alle autorità irachene, ma mi hanno mandato via accusandomi di inventare tutto".


Che effetto le fa essere un simbolo delle torture di Abu Ghraib?

"Quella stessa foto per me è una tortura, e preferirei essere ricordato per altre cose. Ma voglio che quello che mi è successo non accada ad altri: per questo ho fondato un'associazione, che non ha niente a che vedere con i partiti politici. Lavoro per difendere i diritti di chi è in prigione, dare agli ex detenuti aiuto materiale e supporto psicologico, testimoniare quello che accade in Iraq".


Crede che nell'ultimo anno, dopo che le violenze di Abu Ghraib sono venute alla luce, le condizioni dei detenuti siano migliorate?

"No. Credo che quando le telecamere entrano nelle prigioni la situazione sembra migliore. Ma ricevo continuamente e-mail di familiari di detenuti che denunciano abusi e violenze, e non solo nelle prigioni gestite dagli americani. Nella zona di Al Garma poi sono rinchiusi donne e bambini, una quindicina in tutto. La cosa più grave è che nel 99% dei casi i detenuti sono innocenti e vengono rilasciati, ma intanto in carcere hanno perso la dignità".

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