sabato, ottobre 27, 2007

Lo spettacolo del Calvario

Post originale tratto dal blog Kelebek di venerdì, 1 aprile 2005

I muscoli dei malati di Parkinson - ci spiega un medico fissando le telecamere - non riescono a trattenere l'urina.

Scompare la faccia dell'esperto di liquidi corporali, compare l'immagine di un sondino nastro-gastrico. Il sondino se ne sta ricurvo, felice serpente di plastica, sopra un elegante drappo scuro: il suo luogo di nascita è chiaramente un depliant pubblicitario, di quelli che un vivace informatore scientifico presenta ai suoi clienti assieme a un invito a un convegno da svolgersi a Rio de Janeiro o a Bangkok.

Va in scena così, su scala planetaria, l'ultimo atto della grande telerecita wojtyliana, intitolato "il Calvario del Santo Padre".

Ogni riflessione seria su questo tema deve prescindere dagli opposti estremismi: da una parte coloro che ti accusano di aver offeso i sentimenti dei credenti (un argomento che trovo privo di qualunque valore logico); dall'altra, la piccola ma attiva schiera di quelli che odiano a tal punto la religione da non capire affatto cosa sia.

Voglio fregarmene di entrambi e riflettere invece su alcune cose.

Storicamente e simbolicamente, il papato è stato una funzione. Nell'immaginario cattolico, un "umile servo del Signore" assumeva per un breve istante il ruolo terreno del Vicario di Cristo. Un ruolo talmente astratto che il suo provvisorio portatore doveva anche cambiare nome. L'astrazione è garantita dalla distanza, e anche da gesti, pratiche e oggetti: tra cui i curiosi flabelli, lunghissimi ventagli di piuma.

Il Pontefice è in sé anonimo; ma questo anonimato comporta la negazione dell'identità sessuale maschile. Il prete, e ancora di più il Papa, non è un uomo, in tutti i sensi.

La sua autorità è pervasiva e sottile, in quanto non minaccia l'autorità maschile di nessun altro; ma proprio allontanandosi dalla generazione della vita, sfugge in qualche modo alla morte. I Pii, i Leoni e i Giovanni si susseguono distinti appena da numerini romani.

Sento spesso dire, "sono laico, ma concordo con i credenti che Karol Wojtyla è un grande uomo".

È una sciocchezza perché moltissimi blogger dicono cose più intelligenti di quelle che ha detto Karol Wojtyla. I media possono parlare della sua "grande saggezza", ma - come si dice - carta canta, e canta con una piattezza e una banalità sconvolgenti.

Anzi, sono tentato a credere che Wojtyla dica cose più stupide di quelle che pensa, perché ogni parola che pronuncia è calibrata per essere accettabile a chiunque su questo rissoso pianeta: il comune denominatore tra noi tutti è il nulla, ed è proprio questo che Wojtyla sa esprimere con grande maestria.

Non credo che Wojtyla abbia "abbattuto la Cortina di Ferro", o "portato la Chiesa nel terzo millennio", o "riportato la Chiesa nel Medioevo". Quello che è successo alla Chiesa in questi anni è dipeso da molte cose oltre alla volontà di Wojtyla. E comunque sono anni che Wojtyla non è in grado di prendere decisioni anche elementari. Organizzazioni come l'Opus Dei, l'Acton Institute o Comunione e Liberazione o i Legionari di Cristo hanno dinamiche proprie.

Quello che Karol Wojtyla ha saputo fare invece è recitare l'incarnazione del dramma umano in simbiosi con i media: lui si fa fotografare con la mano sotto il mento, il commentatore televisivo abbassa la voce e dice, "ammiriamo insieme la sua profonda sapienza". Wojtyla non riesce a parlare, ergo "trasmette la sua grande serenità senza bisogno di parole".

Lo spettacolo wojtyliano s'insinua nello spazio che la Chiesa si ritagliò storicamente quando i suoi ministri si fecero eunuchi per il Regno dei Cieli: lo spazio delle vedove, dei mendicanti, dei malati. Che non è lo spazio dell'oppressione, ma lo spazio del dolore, di cui questo mondo contiene inesauribili riserve.

Il Wojtyla-show ha percorso un milione di chilometri, recitando innumerevoli variazioni sul tema del Grande Nonno che abbraccia la bambina nera malata di Aids. Non guarisce dall'Aids o dalla povertà, ma è tanto umano, e se ti permetti di dire qualcosa, sembra che tu odi le bambine nere malate di Aids. Così Wojtyla diventa la buona coscienza del mondo, o meglio la coscienza che si sente buona perché si ammira mentre apprezza i propri sensi di colpa. Si esce dal dolore con l'infantilizzazione, accantonando i conflitti nella "civiltà dell'amore", le tragedie nel suono di chitarre e canzoni che possiamo solo definire penose.

In tutto questo non c'è più traccia del tremendo psicodramma della Chiesa, che ci parla della caduta, della guerra tra Michele e Satana, del sangue di Cristo che ci redime dall'inferno, di quella forma inquietante di sacrificio insieme umano, vegetale e divino che è la Messa.

Questa gigantesca lacuna non è casuale. Infatti, mentre il ruolo storico del Papa è quello di anonimo funzionario di Gesù, Wojytla usurpa tutti i ruoli psicologici (non teologici) dello stesso Gesù, che "ci ama e ci sta vicino", che "soffre assieme a noi". Non sorprende quindi che Wojtyla sia più amato dei suoi predecessori, ma quello del "papa umano" è un ruolo che si può recitare una volta sola. Il suo successore dovrà inventare un ruolo ancora più "umano" e mediatico, o verrà profondamente disprezzato da tutti i papaboys, da tutti coloro che saltellano mentre fanno i coretti, "Gio-vanni Pao-lo! Gio-vanni Pao-lo!"

L'industria culturale corrompe e inquina tutto ciò che tocca. Qual è il senso di questo ultimo, ributtante spettacolo, dove il disastrato stomaco di Wojtyla viene divorato con la stessa cannibalistica curiosità con cui venivano diffuse le foto del Papa Sciatore?

Si tratta del prezzo che tutti gli attori dello spettacolo planetario devono pagare alla fine all'impresa criminale che li ha creati? Come Michael Jackson il telestar che diventa Michael Jackson il telepedofilo, insomma.

Oppure si tratta dell'ultima recita del fondatore del Teatro rapsodico di Cracovia?




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