sabato, ottobre 27, 2007

Il potere di definizione

Post originale tratto dal blog Kelebek di mercoledì, 23 marzo 2005

Chi definisce le parole, definisce il mondo. Eccone un esempio che ci riguarda tutti.

Nel nostro pianeta ormai surrealmente controllato e sorvegliato, c'è un fatto clamorosamente fuori controllo.

Da due anni, il più grande, potente e meglio armato esercito della storia cerca di sottomettere un piccolo angolo del Medio Oriente, e non ci riesce.

Due anni sono tanti: sono qualche mese in più di quanto sia durata l'ultima guerra sul suolo italiano, che pure ha segnato in maniera irreversibile questo paese.

Gli iracheni si oppongono senza alleati e senza nemmeno potersi dare una seria organizzazione politica - se nascesse in Italia, ad esempio, un "governo della resistenza irachena in esilio", cinque minuti dopo sarebbero tutti in galera. L'assenza di un referente permette ai media di dare il ruolo centrale a una personalità praticamente sconosciuta in Iraq, al-Zarqawi, o di dire che tutto avviene solo in un presunto "triangolo sunnita" (dove in realtà ci sono anche molti villaggi a maggioranza sciita).

Ma alcune settimane fa, laici, comunisti patriottici, il cosiddetto "clero" sunnita e la parte politicizzata del movimento sciita si sono riuniti per formare una sorta di coordinamento a sostegno della lotta di liberazione. Sarà più difficile adesso parlare di "fanatici sgozzatori", anche se continueranno ovviamente a farlo lo stesso.

Ma la guerra non avviene solo quando saltano per aria i giganteschi carri armati americani. Avviene anche qui, attraverso le parole che la definiscono.

Chi combatte un invasore fa resistenza. E' una definizione scientifica, che non indica alcun giudizio morale. La Repubblica Romana nel Risorgimento fece resistenza contro le truppe che volevano restaurare il Papa, e il Papa fece resistenza contro l'esercito dei Savoia che assediò Roma vent'anni dopo. Gli iracheni stessi parlano normalmente di muqâwama, che vuol dire proprio resistenza. Ma niente da fare; come ha imparato Lilli Gruber, se chiami la resistenza "resistenza", ti rispediscono a casa. La resistenza, evidentemente, deve essere solo quella cosa che Ciampi fa con grosse corone di fiori ogni 25 aprile.

Poi c'è il termine "terrorismo". E' chiaramente un insulto, e anche un insulto abbastanza infantile. Ma è anche errato come significato, perché non indica una causa, bensì un metodo. Sarebbe come dire sempre "bombardatori" invece di "americani".

Però c'è un terzo modo di chiamare i resistenti iracheni: insurgents, cioè "insorti, ribelli". Questo termine ha un illustre precedente.

Dopo la cosiddetta scoperta dell'America, il re di Spagna era solito concedere ad ambiziosi imprenditori dell'epoca un adelantado, cioè il permesso di raccogliere alcuni avventurieri e conquistarsi un pezzo delle nuove terre, in cambio della concessione alle casse reali di un quinto del bottino.

Ma l'adelantado si basava sul Trattato di Tordesillas, quando il Papa spaccò in due un continente tutto da esplorare, dividendolo tra portoghesi e spagnoli. Da quel momento in poi, i conquistadores, ogni volta che incontravano un nuovo popolo, dovevano semplicemente informarlo che era già, a sua insaputa, un "suddito e vassallo" del re di Spagna.

E così si rovesciava brillantemente la realtà. La resistenza all'invasione si trasformava in una rottura violenta e illegale della pace coloniale; un atto di tradimento, quindi, che andava punito come tale e che permetteva inoltre - assai comodamente - di ridurre gli insorti in schiavitù.

Nel 1542, gli spagnoli fondarono la città di Mérida, nello Yucatán: fondare una città - un'azione che consisteva in genere nel leggere ad alta voce un documento in spagnolo a un pubblico misto di invasori, indigeni e pappagalli - significava giuridicamente dire che era arrivata la pace. E così, da quel momento in poi, chiunque resistesse diventava un "ribelle", passibile di impiccagione o di riduzione in schiavitù.

La resistenza, che proseguì ovviamente a prescindere dal rituale di fondazione di Mérida, viene ancora oggi chiamata "la grande rivolta Maya" dagli storici.

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