Sono nella città luminosa. In alto, in alto, in una delle quattro torri di un immenso albergo, con sale gigantesche per accogliere indifferentemente uomini d'affari tedeschi, spettacoli e il matrimonio di Eddy e di Gina: i cinesi hanno, all'incirca, gli stessi nomi che hanno i figli delle nostre telenovele.
Il Servo di scena è a tutti gli effetti un signore, almeno finché dura. Non serve, ma lavora, con efficace discrezione (e in apparente, assoluta parità di rispetto, se non di ruolo, con i suoi compagni di viaggio).
È lui a essere servito.
Ora, ogni città, più è luminosa - e Singapore merita certamente questo aggettivo -, più nasconde abissi di tenebre. Io sono molto in alto (o meglio, molto più in alto del mondo in cui mi muovo abitualmente), e proprio per questo mi sono preclusi i fossati oscuri. Ma ne intuisco qualcosa, perché c'è una chiave assolutamente familiare per capirlo: il colore della pelle.
Chi sa perché i cinesi li chiamiamo gialli, visto che hanno le stesse sfumature di colore di noi, gli uomini rosa d'Occidente (io almeno non sono certamente bianco, per mia fortuna). A Singapore, comunque, i gialli e i rosa sono entrambi esseri umani normali.
Ma ovunque, nella stessa città, vedi uomini e donne che non sono giallorosa. Ovunque, tranne nei luoghi in cui le persone hanno un nome. Indonesiani, malesiani, indiani, ti aprono le porte, ti prendono i bagagli, scavano buche per strada, sorvegliano il traffico, ti vendono piccole cose nei negozi… Scuri, sorridenti, anonimi. Uomini di servizio.
Ma allora Singapore è esattamente come Los Angeles. Oppure come Brescia, una città luminosa che io ho conosciuta tutta dai fossati e dalle tenebre, tra i
Rom della cascina Cavafame.
È il nuovo modello universale. Da una parte, gli eletti. Non importa quanti disgraziati ci siano tra gli eletti, ciò che conta è che essi si sentano prima di ogni cosa, eletti. Che abbiano ogni giorno occasione di riflettere sulla loro meritata superiorità. Nel godimento dell'elezione, sparisce ogni conflitto e ogni volontà di trasformazione e si diffonde la spaventosa peste che chiamano - orwellianamente - moderazione.
Tutt'attorno, un altissimo muro, di cui il simbolo universale è quello che spezza in due il cuore della Terra Santa. Uso questo termine volutamente: c'è un angolo meraviglioso e un po' delirante in noi, che resta colpito da un fatto straordinario. È proprio nel luogo più fantasticato del mondo monoteista che la discriminazione e il culto di uno stato razziale è diventato un valore positivo, rivendicato con orgoglio, per la prima volta da sessant'anni a questa parte.
Oltre il Muro, esiste l'altra umanità. Che deve portare un chiaro segno: il colore della pelle, l'accento zoppicante, un'esotica scrittura, una religione aliena. Così lo scontro di classe diventa necessariamente "scontro di civiltà", come dicono i vampiri, i bevitori di sangue e i cialtroni.
Noi non sappiamo mai cosa debba fare esattamente quest'altra umanità: copiarci, seguirci, andarsene lontano o semplicemente morire. In realtà lo sappiamo, ma non lo ammettiamo a noi stessi, perché ci salviamo la coscienza con l'ambiguità: "che crepino, visto che avrebbero potuto copiarci, e invece non lo hanno fatto".
Perché l'altra umanità è insieme il letame su cui cresciamo i nostri figli, e l'orrore che ci circonda e ci terrorizza. E proprio perché ci terrorizza, perversamente ci unisce.
O meglio, scusate, li unisce. Perché, per quanto a volte io pianga per loro, non sarò mai dei loro.
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