domenica, ottobre 28, 2007

Il servo di scena va a Singapore (II)

Post originale tratto dal blog Kelebek di lunedì, 11 luglio 2005
Sono nella città luminosa. In alto, in alto, in una delle quattro torri di un immenso albergo, con sale gigantesche per accogliere indifferentemente uomini d'affari tedeschi, spettacoli e il matrimonio di Eddy e di Gina: i cinesi hanno, all'incirca, gli stessi nomi che hanno i figli delle nostre telenovele.
Il Servo di scena è a tutti gli effetti un signore, almeno finché dura. Non serve, ma lavora, con efficace discrezione (e in apparente, assoluta parità di rispetto, se non di ruolo, con i suoi compagni di viaggio).
È lui a essere servito.

Ora, ogni città, più è luminosa - e Singapore merita certamente questo aggettivo -, più nasconde abissi di tenebre. Io sono molto in alto (o meglio, molto più in alto del mondo in cui mi muovo abitualmente), e proprio per questo mi sono preclusi i fossati oscuri. Ma ne intuisco qualcosa, perché c'è una chiave assolutamente familiare per capirlo: il colore della pelle.

Chi sa perché i cinesi li chiamiamo gialli, visto che hanno le stesse sfumature di colore di noi, gli uomini rosa d'Occidente (io almeno non sono certamente bianco, per mia fortuna). A Singapore, comunque, i gialli e i rosa sono entrambi esseri umani normali.

Ma ovunque, nella stessa città, vedi uomini e donne che non sono giallorosa. Ovunque, tranne nei luoghi in cui le persone hanno un nome. Indonesiani, malesiani, indiani, ti aprono le porte, ti prendono i bagagli, scavano buche per strada, sorvegliano il traffico, ti vendono piccole cose nei negozi… Scuri, sorridenti, anonimi. Uomini di servizio.

Ma allora Singapore è esattamente come Los Angeles. Oppure come Brescia, una città luminosa che io ho conosciuta tutta dai fossati e dalle tenebre, tra i Rom della cascina Cavafame.

È il nuovo modello universale. Da una parte, gli eletti. Non importa quanti disgraziati ci siano tra gli eletti, ciò che conta è che essi si sentano prima di ogni cosa, eletti. Che abbiano ogni giorno occasione di riflettere sulla loro meritata superiorità. Nel godimento dell'elezione, sparisce ogni conflitto e ogni volontà di trasformazione e si diffonde la spaventosa peste che chiamano - orwellianamente - moderazione.

Tutt'attorno, un altissimo muro, di cui il simbolo universale è quello che spezza in due il cuore della Terra Santa. Uso questo termine volutamente: c'è un angolo meraviglioso e un po' delirante in noi, che resta colpito da un fatto straordinario. È proprio nel luogo più fantasticato del mondo monoteista che la discriminazione e il culto di uno stato razziale è diventato un valore positivo, rivendicato con orgoglio, per la prima volta da sessant'anni a questa parte.

Oltre il Muro, esiste l'altra umanità. Che deve portare un chiaro segno: il colore della pelle, l'accento zoppicante, un'esotica scrittura, una religione aliena. Così lo scontro di classe diventa necessariamente "scontro di civiltà", come dicono i vampiri, i bevitori di sangue e i cialtroni.

Noi non sappiamo mai cosa debba fare esattamente quest'altra umanità: copiarci, seguirci, andarsene lontano o semplicemente morire. In realtà lo sappiamo, ma non lo ammettiamo a noi stessi, perché ci salviamo la coscienza con l'ambiguità: "che crepino, visto che avrebbero potuto copiarci, e invece non lo hanno fatto".

Perché l'altra umanità è insieme il letame su cui cresciamo i nostri figli, e l'orrore che ci circonda e ci terrorizza. E proprio perché ci terrorizza, perversamente ci unisce.

O meglio, scusate, li unisce. Perché, per quanto a volte io pianga per loro, non sarò mai dei loro.

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